Una Sardegna fiamminga
Intervista a Enrico Pau
Che cosa ti ha spinto a girare un film come questo, apparentemente diverso dai tuoi lavori precedenti?
Ogni film nasce da una necessità profonda e L’accabadora ha origine dal mio desiderio di confrontarmi con il passato della nostra terra. Ho voluto tornare indietro ai giorni dei bombardamenti su Cagliari, per dare forma ai racconti di mia madre bambina sotto le bombe. La guerra e le sue distruzioni costrinsero molti a lasciare la città, con le sue comodità, i suoi caffè, i suoi cinema, i suoi teatri, la sua vita frenetica, per cercare riparo nella campagna. Decine di migliaia di cagliaritani sfollarono. Ma qualcuno rimase a tenerla in vita, e a loro è dedicato il film.
Al contrario, Annetta, la protagonista, arriva nella città dalla campagna…
Annetta è uno di quegli esseri umani la cui esistenza trascorre dentro un microcosmo “arcaico” (nel senso etimologico di cosa arcana, dimenticata). Questa sua distanza siderale dal mondo, il suo nascondersi nell’ombra, negli angoli della vita non è una scelta. Possiamo dire che Annetta è inizialmente un personaggio tragico: le traiettorie della sua vita paiono disegnate al di là della sua volontà, il destino l’ha collocata in un luogo remoto e la sua vita è segnata dai riti di un mondo oscuro. I contrasti tra luce e ombra dominano il film.
Come avete lavorato, in questo senso?
Con lo scenografo e la costumista abbiamo riflettuto sulla necessità di elaborare un cromatismo capace di mettere in relazione i colori della terra, del cielo e della natura. Ho trovato quello che cercavo nel paese di Collinas e nella sua campagna, un luogo che ha lasciato una traccia profonda nel film. Volevo uscire dall’idea stereotipata di Sardegna che troppe volte abbiamo visto nei quadretti di un certo folklore che imprigiona la nostra identità ai temi classici del nero, del bianco delle pecore, dei paesini pietrosi collocati su montagne impervie come quelle della Barbagia. Ho chiesto ai miei reparti artistici di colorare tutto ispirandosi all’idea pittorica di alcuni grandi artisti sardi degli inizi del Novecento, volti alla ricerca di una luce diversa per tratteggiare un’isola più sognata che reale. Il mio sogno di quest’isola comprende certe opere di Giuseppe Biasi, di Melkiorre Melis, delle sorelle Coroneo che, negli interni, hanno lasciato spazio a un luminismo fiammingo che io stesso ho ostinatamente ricercato nella prima parte del film. Una Sardegna fiamminga: ecco il mio desiderio, che il giovane irlandese Piers McGrail, direttore della fotografia, ha assecondato con luci che si appoggiano morbidamente sui corpi e sulle cose.
Immagino che anche i costumi di Antonio Marras rientrino in questo disegno complessivo…
Certo: il mantello disegnato da Marras per vestire la nostra Accabadora ha la caratteristica di essere un oggetto senza tempo, un abito che Annetta ha ereditato dal passato della sua famiglia e che svolge un ruolo fortemente simbolico.
Tra i momenti più sorprendenti del film c’è la sequenza realizzata con i materiali d’archivio. Di cosa si tratta?
Come dicevo prima, in tanti rimasero a Cagliari nonostante i bombardamenti: rimase il dottore che ebbe l’incarico di custodire le meravigliose cere settecentesche del Susini, capolavori della ceroplastica mondiale, che ancora oggi si possono ammirare alla cittadella dei musei. A lui è ispirato il personaggio di Albert, il medico del film. Altri rimasero perché non potevano o non volevano lasciare Cagliari, come i commercianti del latte di Arborea che ogni giorno rifornivano la città affamata e i diecimila che ancora resistettero sotto i bombardamenti. Sempre loro prestarono il camioncino che servì a portare in processione Sant’Efisio, come tradizione da trecento anni, anche in quel primo maggio del 1943, pochi giorni prima dell’ultimo e definitivo bombardamento. In città rimase anche Marino Cao, il cineamatore che girò le immagini di Sant’Efisio che ho voluto utilizzare ad ogni costo, perché quelle immagini hanno ispirato la nostra storia. Testimoniano di una passione resistente che non cedette nemmeno in tempo di guerra. E proprio Marino Cao, il commerciante di mobili e cineamatore colto e curioso, è fra le persone che mi hanno trasmesso il desiderio di fare cinema: per tramandare l’amore profondo per la mia città e per coloro che la abitano e la hanno abitata.