ISREAL. Un’espressione che si potrebbe leggere idealmente a conclusione di una domanda: “what is real?”. Che cosa è reale? O meglio: che cosa è “il reale”, nell’accezione propria di “cinema del reale” che ormai caratterizza comunemente l’arte documentaria. Al cinema, il reale è l’immaginario, territorio di esplorazione, viaggio e scoperta che si offre allo sguardo dello spettatore disposto a concedere credibilità a ciò che vede. Intorno a questo patto si gioca la riuscita di ogni opera cinematografica, poiché quello che conta non è la realtà ma la verità di una messa in scena, rappresentazione che si serve di un proprio linguaggio e che sussiste solo nell’accettazione condivisa di senso tra chi ha filmato le immagini e chi le guarda.
“Il cinema è la mia verità” (“ciné, ma véritè”), sosteneva Chris Marker, in opposizione a un concetto ambiguo come quello di “cinema verità” in voga negli anni ’60, sottolineando la soggettività di ogni opera artistica, anche la più aderente alla realtà. Da allora sono trascorsi decenni, radicali in termini di trasfigurazioni sociali e tecnologiche: il cinema è cambiato tanto quanto il mondo che racconta e nell’epoca dei blockbuster in 3D, della smaterializzazione del supporto cinematografico e della virtualizzazione dei rapporti umani, il documentario ha rinnovato e radicalizzato la propria identità. Anestetizzati dal bombardamento delle immagini e da un’invasiva mediatizzazione culturale, abbiamo sete di realtà e il miglior cinema contemporaneo risponde a tale necessità.
Solo per limitarci all’Italia, registi come Gianfranco Rosi, Michelangelo Frammartino e Roberto Minervini si sono affermati a livello internazionale come fautori di una pratica cinematografica capace di mettere in discussione i confini tra realtà e finzione, affinando un nuovo linguaggio, adeguato ai tempi in cui viviamo. Proprio a uno di loro dedichiamo ampio spazio in questa prima edizione di ISREAL: Pietro Marcello, che con Bella e perduta ha firmato un’opera unica e coraggiosa, mescolando documentario, finzione e fiaba per invocare un risveglio civile a fronte dello sfacelo in cui versa lo stato dell’arte in Italia. Un richiamo a difesa di ciò che di più prezioso l’uomo ha prodotto in passato e una presa di posizione, politica e lirica, a favore della sua futura salvaguardia.
La commistione dei generi attraversa programmaticamente il festival, che affianca opere di documentarismo “puro” ad altre di esplicita finzione. Un ruolo fondamentale spetta, in questo senso, a L’accabadora di Enrico Pau, evento di apertura della manifestazione: un’opera immaginifica, capace di trascendere passato e tradizione della nostra isola con la forza di un pensiero artistico personale e di uno sguardo dall’intensa qualità pittorica, deciso a inseguire squarci di luminosa vitalità nell’oscurità della guerra. Un ricco allestimento dei costumi (realizzati da Stefania Grilli con la supervisione di Antonio Marras) e delle foto di scena (di Nicola Casamassima e Francesca Manca di Villahermosa) accompagnerà il film per tutta la durata dell’evento. In questa medesima apertura dialettica rientrano film eclettici come L’accademia delle Muse di José Luis Guerin, sublime riflessione sul potere della parola, e i corti di Bonifacio Angius (Domenica) e Giovanni Columbu (L’autobus).
Infine, il concorso: otto opere realizzate da giovani autori di nazionalità differenti che offrono un ricco spaccato della natura poliforme del documentario. Dai riti ancestrali di un paesino siciliano (Triokala) a quelli di una comunità cecena (La familia chechena), dal racconto di un doloroso esilio (La fièvre) a quello di un sognante ritorno al passato (Motu Maeva); generazioni a confronto in una regione contadina dell’Ucraina (The Living Fire) e uomini che dialogano da una sponda all’altra di un Mediterraneo di migrazioni (Sponde); dai divertiti tafferugli con le scimmie che hanno invaso Gibilterra (Territory) al sogno di un uomo che ha cercato la fuga dalla civiltà costruendo un villaggio nei boschi catalani (Sobre la marxa). Un viaggio lungo cinque giorni all’insegna del reale e del suo immaginario.
Alessandro Stellino
Direttore Artistico di ISREAL Festival