Roberto Minervini – Il mondo in fiamme

Il cinema come catarsi - intervista a Roberto Minervini, di Alessandro Stellino, direttore artistico di IsReal.

Da un punto di vista cronologico, per te il cinema non rappresenta un’esperienza giovanile: è arrivato tardi, con la maturità. Ma, a ben guardare, si scopre come già i tuoi anni di formazione siano densi di eventi, di viaggi in territori lontani, costellati di esperienze spesso estreme e di incontri che ti hanno reso l’autore che sei oggi. Vorresti riassumere brevemente il percorso che ti ha portato al primo film?

Il mio percorso comincia lontano, da un’esigenza basilare: arrivare a fine mese, avere un impiego, uno stipendio. Questo è un concetto trasmessomi dalla mia famiglia, “l’eredità” che mi è stata tramandata. Rinunciando inizialmente a ogni velleità artistica, ho studiato Informatica ed Economia perché si diceva offrissero maggiori possibilità. Inutile dire che odiavo queste discipline. Da quel momento ha inizio un lungo viaggio: dalle Marche mi sposto in Spagna, alla ricerca di lavoro, e per un periodo vivo anche in strada, per poi ritrovarmi alla Camera di Commercio italiana, come impiegato. Una frustrazione totale. Ma capisco di dovermi muovere nel “sottosuolo”: nei tempi morti della mia vita da impiegato comincio a produrre musica, in cerca di una forma espressiva. Poi, gli Stati Uniti. Non ci volevo andare temevo i ritmi folli della vita americana: l’ho fatto solo per amore. Dopo l’11 settembre mi vengono retribuite delle mensilità come vittima degli attentati e questo mi offre la possibilità di frequentare un master in Media Studies. Il “sottosuolo” giunge infine in superficie: ormai trentenne, decido di iniziare a vivere facendo ciò che amo. Ci provo come fotoreporter di guerra, perché mi allettava l’idea di avere una missione ben chiara, ma fallisco e così parto per le Filippine, paese di cui mi interessava il contesto socioeconomico difficile e il fermento artistico. Insegno in una scuola di cinema e nell’università di Manila. Sono felice, ma si ammala mia suocera e sono costretto a tornare negli Stati Uniti, in Texas, e a un lavoro da impiegato in un hotel. Ritorno a operare nel “sottosuolo”: chiamo ex-studenti ed ex-docenti, inizio a produrre il mio primo film. Agisco nel modo più semplice e naturale, cercando una simbiosi tra me e ciò che mi circonda: il film sarà The Passage, la storia di un viaggio che parte dalla morte di una donna.

 

Fin dal tuo primo lungometraggio ti sei confrontato con il tema della morte. Mi sembra che racchiuda in sé tutte le paure e i lati oscuri della vita umana che affronti nel tuo cinema. Un altro aspetto importante, fin da subito, è l’esplorazione del limite tra realtà e finzione: non è semplice capire se la protagonista di The Passage sia un’attrice o una persona “reale”, e quest’ambiguità si manterrà nelle tue opere successive.  Com’è nato il tuo primo film e come hai lavorato con i tuoi interpreti?

Avevo intenzione di fare un film sulla morte, su quanto effimera possa essere la vita. Parto sempre da uno spunto personale, con i miei film cerco un confronto, e attraverso di essi vivo una catarsi. È una mia esigenza, ma forse qualcosa di ancora più profondo: essendo cresciuto in una famiglia atea, mi è sempre mancata una guida. Sono stato addirittura punito per aver fatto il chierichetto, perché nella mia famiglia bisognava essere atei. Quindi le domande esistenziali mi hanno sempre perseguitato. L’avvicinarsi della morte di mia suocera è stato il motivo scatenante che mi ha spinto a lavorare a The Passage. Volevo che il film aderisse alla realtà di quel momento, ma ero costretto a ricreare, a rimettere in scena questo evento cercando di essere fedele al suo nucleo di verità. Ho scelto di lavorare con una donna che si era salvata da un cancro terminale: ha interpretato se stessa, in una sorta di processo catartico. I dottori, all’oscuro delle modalità in atto, esaminavano le risonanze magnetiche di mia suocera pensando si trattasse di quelle della donna del film e quindi quel responso ha innescato un processo, qualcosa che ha iniziato a muoversi e a comunicarmi qualcosa di vero, perché nel film la donna rivive la sua lotta con il cancro attraverso i referti di mia suocera. All’inizio avevo un copione, lo ritenevo uno strumento indispensabile anche per ragioni tecniche, ma l’ho abbandonato quando ho capito che la realtà era molto più grande di me e che mi sarebbe stato d’ostacolo: mi sono lasciato guidare, rinunciando al controllo. Per la prima volta, mi sono sentito “piccolo”, costretto a fidarmi della realtà circostante che mi prendeva per mano, come in una relazione amorosa.

 

Quindi, a partire dal secondo film, hai iniziato a lavorare senza sceneggiatura?

Per il secondo film mi sono limitato a scrivere un’outline di venti pagine, ma ho buttato via anche quella subito dopo aver cominciato. E mi sono ripromesso di non scrivere più nulla. Low Tide è la storia di un bimbo con una madre alcolizzata. I personaggi di questo film e del precedente hanno legami di amicizia, si conoscono, quindi mi sono mosso su un terreno già fertile. La fiducia tra me e gli interpreti è il vero punto di partenza: è lì che si gioca il film. Il personaggio che interpreta la mamma del bimbo è in realtà sua sorella, anche lei vittima del rapporto disfunzionale con la madre. Si ripresenta, dunque, questo cortocircuito che è una vera e propria bomba a orologeria, difficile da maneggiare: può portare a risultati disastrosi ma anche alla meraviglia di quel processo catartico a cui è volto il mio cinema. In qualche modo ne è la genesi, il big bang.

 

Nei tuoi film ci sono questi momenti straordinari, impossibili da descrivere a parole ma estremamente vibranti a livello visivo, in cui i personaggi sembrano prossimi a una rivelazione o persi dentro di sé. Ha qualcosa a che vedere con il tempo dell’attesa, che riguarda i personaggi ma anche te e il tuo lavoro di ricerca e contemplazione delle emozioni umane...

Si, questo l’ho capito con Low Tide perché lavoravamo con un bambino, un “meccanismo” fragile, e io ho scelto di fidarmi di lui. Il metodo di lavoro prevedeva di parlargli, spiegargli ciò che sarebbe andato a fare e poi seguirlo con la macchina da presa, e aspettare. Il film è girato in 35mm con pellicola a due perforazioni, quindi con take della durata massima di otto minuti. Otto minuti per vivere quest’attesa. È stata una scommessa riuscita. L’attesa e i silenzi mi affascinano perché riguardano i personaggi, e io non cerco di svelarne il senso, mi limito a consegnare questi momenti allo spettatore. Con Low Tide ho portato a definizione una pratica che mi soddisfaceva e toccava profondamente.

 

Qual è il percorso che conduce da The Passage a Stop the Pounding Heart? In che modo i due film sono legati?

Come dicevo, una volta abbandonato il copione non ci sono più limiti tra il film e la vita che vivo, si fanno inscindibili. Dopo aver stracciato il copione di The Passage, in un mercato ortofrutticolo ho conosciuto la famiglia di Sara, la protagonista di Stop the Pounding Heart. Mi ha colpito subito la loro sincerità e purezza, così gli ho proposto di girare una scena in cui mungevano, e dopo quel primo incontro non ci siamo più separati. Stop the Pounding Heart è nato così: dal desiderio di fare qualcosa insieme, anche se nessuno di noi sapeva ancora cosa. Quindi non avevi idea di quale forma avrebbe preso il film? La mia esperienza mi diceva di partire senza nulla di scritto. Per i miei film precedenti avevo già avuto modo di incontrare le famiglie dei cowboy e dei bullrider, avevo stabilito una relazione con quel mondo. Mentre giravo mi sono reso conto che il film poteva riguardare l’essere uomo nel sud degli Stati Uniti, in Texas, ma ho continuato ad ascoltare le storie di tutti, a fidarmi. A capire che Sara sarebbe stata la mia protagonista ci sono arrivato molto dopo aver cominciato le riprese: i suoi genitori mi dicevano che era troppo taciturna e timida per il mio film, ma io la sentivo molto vicina a me e ho scelto di seguire quella strada.

 

La scena della confessione finale di Sara nel dialogo con sua madre è straordinaria: come sei riuscito a realizzarla?

Sapevo che Sara e le sue sorelle si riunivano periodicamente con la madre, per chiederle conforto in un momento di particolare difficoltà, emotiva e spirituale. Dopo un paio di mesi di riprese, Sara mi disse che era pronta a parlare con sua madre, e che avrei potuto assistere alla conversazione. Quindi, nel silenzio più totale che regnava già da qualche ora, mi sedetti vicino al letto, da solo, senza la troupe. Il fonico aveva appoggiato l’asta del microfono alla parete. Rimasi immobile, in quella posizione, per 27 minuti. I primi 9 minuti e mezzo furono di assoluto silenzio, disturbato solo dal suono delle carezze della mamma sui capelli e sulla maglietta di Sara. Non sapevo se e cosa sarebbe successo, cosa si sarebbero dette Sara e sua madre, ma oramai ero diventato una presenza invisibile, un testimone privilegiato di una situazione familiare di assoluta intimità. Ecco: il fatto che Sara e LeeAnne mi abbiano permesso di essere testimone di un loro pezzo di vita credo sia stato una sorta di ringraziamento nei nostri confronti, perché i momenti che abbiamo vissuto insieme, noi della troupe e i Carlson, sono stati momenti di vero affetto che ci portano ancora oggi a essere amici e a volerci bene.

Anche tra Stop The Pounding Heart e Louisiana – The Other Side c’è una relazione molto forte, come sei arrivato alle due storie che compongono il film?

Con Louisiana – The Other Side eravamo ormai al secondo mandato di Obama e sentivo l’esigenza di fare un film politico, di schierarmi, ma mi mancava il materiale umano. Non adatto mai il materiale umano alla storia; o meglio, se manca il materiale umano utile a raccontare una storia, semplicemente non la racconto. Quindi ho parlato con i bullrider di Stop the Pounding Heart e loro mi hanno suggerito di andare in Louisiana a conoscere i loro parenti. Cosa che ho fatto, con tutta la famiglia al seguito. Todd, il patriarca della famiglia dei bull rider, è di West Monroe, nella Louisiana del nord. A 14 anni si è tirato fuori da una situazione difficilissima: era un criminale, fabbricante e spacciatore di droga... Dopo una sparatoria scappò perché era braccato da una gang rivale, si rifugiò a Wacko, vicino a Dallas, e rimase latitante per circa quattro anni, per poi andarsene ancora più a sud, a Deer Park, una zona di estrazione petrolifera, per fare il manovale. Nel corso degli anni, Todd è diventato un po’ il mio padre putativo texano: mi insegna a essere texano, a sparare – come cacciatore, non come cecchino! – e mi vorrebbe insegnare a nuotare con i coccodrilli... C’è un legame forte tra me, Todd e tutta la sua famiglia, ecco perché volevo scoprire le sue radici. Per avviare il progetto, ho intrapreso una serie di viaggi verso la Louisiana del nord, e il primo contatto fu proprio la sorella di Todd, Lisa, la fidanzata di Mark, che poi sarebbe diventato il protagonista di Louisiana – The Other Side. Non avevo né un soggetto né una storia in mente, si trattava di fare un lavoro sul territorio, come ho sempre fatto, un approccio che non è mai cambiato: incontrare e conoscere gente e luoghi per poi decidere come muovermi. Come era accaduto per Stop the Pounding Heart, al momento di girare non mi era chiaro non solo quale storia raccontare – si tratta di qualcosa a cui arrivo alla fine del progetto, a volte persino in fase di montaggio – ma non sapevo neanche quali personaggi seguire. Inizialmente, in quel caso, ero partito con Lisa, che era il mio referente. Poi nacque il legame con Mark, un legame primordiale e umano, per via delle cose che ci accomunano. La stessa cosa era accaduta con Sara per Stop the Pounding Heart, con il bambino di Low Tide e con l’uomo dai capelli lunghi di The Passage. A eccezione di Sara, quindi, tutte figure maschili, tutti uomini, giovani o fanciulli introversi e per certi versi impauriti.

 

Hai capito presto che Mark sarebbe stato il personaggio principale del film o hai valutato anche altre alternative?

No, a un certo punto ho pensato che la nipote di Mark che si vede nel film, un’adolescente di 12 anni, potesse diventare uno dei personaggi principali... Pensavo persino che il film vertesse su di lei, che raccontasse la sua storia, e che attraverso lei avrei potuto capire gli adulti. Per me rappresentava la speranza, il sogno di tirarsene fuori, toccava tematiche molto importanti come l’istruzione in America, il sogno di andare a Yale, che costa 50 mila dollari all’anno... c’erano implicazioni pazzesche. L’ho ritratta anche mentre disegnava moda, organizzava piccole sfilate… Poi mi sono reso conto che se volevo raccontare la storia della ragazzina avrei dovuto raccontare la storia della sua famiglia, del suo padre abusivo e violento e avrei dovuto scavare in aree e meandri che non mi sentivo di voler raggiungere... Alcune scelte devono necessariamente essere immediate. C’è bisogno di un’apertura totale, per capire i limiti di quello che si sta raccontando, le difficoltà di una storia e fare dei sacrifici. Lo stesso vale per la spogliarellista incinta: voleva fortemente essere parte della storia, ed era la persona più violenta del film, in senso fisico. Non era per niente semplice lavorare con una persona del genere, come anche l’altra spogliarellista, che ha fatto la guerra in Afghanistan, drogata fino al collo, incontrollabile, tanto che si spogliava nuda nelle lobby degli hotel. Ecco: raccontare quelle storie poneva dei problemi logistici, mettevano a rischio l’intero film. E parlo di personaggi con un appeal fortissimo, difficili da accantonare in un momento in cui ancora non sapevo che Mark sarebbe diventato il personaggio principale.

 

Allora cosa ti guida nella scelta dei personaggi che diventano centrali all’interno del film?

Durante le riprese mi pongo sempre due domande: come fare a rappresentare gente che non può rappresentare se stessa e quanto peso ha l’esigenza di non interferire con il loro modo di essere o con il loro credo. Per la spogliarellista incinta era un’esigenza rappresentarsi in quel modo, mostrare al mondo che per lavorare ha bisogno di assumere stupefacenti. La condizione socio-economica la si eredita, e per me è fondamentale includere una scena del genere, in cui l’eredità di una condizione passa attraverso il sangue. Non c’è ricerca di sensazionalismo: quella scena, per me e per la ragazza filmata, era fondamentale per mostrare una condizione. Tutto passa al vaglio dei personaggi e se per loro una scena o un momento è importante per raccontare il loro mondo, quella scena rimane nel film. Intervenire implica la detenzione della verità, perché si pensa di sapere cosa è giusto e cosa è sbagliato. Il film non riguarda me, io mi assumo la responsabilità del film ma non si tratta di un film sul mio credo o sui miei pre-concetti, non intendo mitigare la realtà. Per questa ragione non riguardo il materiale: io, il mio ego, i miei pregiudizi, le mie idee politiche e i miei limiti mi porterebbero a fare un film su me stesso.

 

Emerge con chiarezza l’importanza della relazione che instauri con i soggetti filmati, fondamentale per porre le basi del lavoro a venire. Ma poi, concretamente, quando cominci a girare in che modo interagisci con loro? Che tipo di interventi operi sulla loro realtà?

Alla base di tutto c’è il lavoro che autore e personaggi fanno insieme – penso al percorso di Jean Rouch che aveva abbandonato l’etnografia per abbracciare l’antropologia condivisa. Altri parlano di restored behaviour, “ripristino del comportamento”: come autore si può favorire l’accadere di alcune situazioni. Io faccio la guida ai personaggi nella loro storia, ascoltandoli li aiuto e li metto in condizione di raccontare le loro storie. Posso fare molti esempi al riguardo: la storia della mamma di Mark, che sapevo morente di cancro. Chiesi di incontrarla e proposi a Mark di fare la stessa cosa. Le dissi che volevo raccontare la sua morte, fui chiaro fin dall’inizio, e lei disse che dovevamo farlo perché se io avessi raccontato la sua morte questo l’avrebbe forse riavvicinata al figlio. Questa è una situazione che non appartiene sicuramente al cinema etnografico di pura osservazione: c’è un mio intervento chiarissimo, e non è l’unico. Si tratta di un intervento di cui mi assumo la responsabilità come autore, ma per me un intervento del genere è appannaggio della verità. In questo senso, ripristinare un comportamento è fondamentale per raccontare una storia che esiste ma non sarebbe emersa. Ho favorito le condizioni per il compiersi di una storia che esisteva già, ma non ne ho deciso la genesi. C’è poi quella che immagino sembri a tutti una scena di pura finzione: la proposta di matrimonio che Mark fa a Lisa, di pari passo con la sua volontà di andare in galera a ripulirsi dopo la morte della madre. Sono due momenti che partono dal rapporto tra me e Mark piuttosto che da quello tra Mark e Lisa – intendo dire che quello che emerge del rapporto tra loro due in realtà ha luogo grazie al rapporto tra me e lui. Parlavamo del suo futuro con Lisa e lui mi fece delle rivelazioni intime e così, parlandone con lui, mettevo sul piatto mie situazioni personali, i miei fallimenti in certe relazioni e lui disse che parlandone con me aveva riflettuto e aveva deciso di sposarla. Ci siamo accordati su quando e dove voleva fidanzarsi, e mi disse che potevo assistere e girare. Parliamo anche qui di una scena che non è di fiction: la genesi appartiene a Mark, il terreno fertile l’ho creato io. Farsi da parte non significa scomparire. Implica una certa fiducia: farsi da parte e creare terreno fertile sono due cose assolutamente compatibili, anche perché, personalmente, ricevere il materiale e documentare con distacco è un approccio che non mi interessa affatto.

 

La divisione del film in due parti ti era chiara fin dall’inizio?

La divisione in due parti è una complicazione, ma io mi complico sempre la vita, quando faccio film. Ritengo sia necessario aver paura di non portarlo a termine, piangere, voler abbandonare il progetto... Sono tutte emozioni necessarie, perché la paura è un reality check, una presa di coscienza fondamentale, come il sentirsi piccolo di fronte al progetto e a quello che si sta vivendo. Sapevo che le difficoltà le avremmo risolte in fase di montaggio, anche se a differenza di Stop the Pounding Heart, dove la mia intenzione era di perdermi completamente, non sapere che tipo di girato avevo in mano e lasciarmi guidare dai personaggi, questa volta il livello di paura era talmente alto che non ho voluto perdermi del tutto. Ogni notte valutavo, facevo un consuntivo, un’analisi delle storie a cui stavo lavorando, quantomeno per capire quali direzioni prendere, trattandosi di un progetto impazzito: personaggi che andavano e venivano, gente che spariva... Il lavoro, dunque, non presentava solo la complessità di esser diviso in due parti ma anche quelle proprie di ogni singola parte. Evito sempre di vedere il girato, comunque, anche perché c’è il rischio di innamorarsi del proprio materiale, di concepirlo come un figlio. Durante le riprese del film l’ho fatto una volta sola e non ci ho dormito la notte perché pensavo che Mark stesse assumendo troppo le sembianze del personaggio di un film di finzione, con i suoi occhi sgranati, le palpebre immobili... Le sue espressioni erano “perfette”, quasi da attore, e d’altra parte la fotogenia era una delle ragioni per cui l’avevo scelto. Sono un perfezionista, attratto dal bello, dalla performance, tutte cose che possono essere deleterie quando si punta a raccontare il reale.

 

Parli di avere paura, di perdersi completamente... Sembra che tu ti esponga parecchio, con tutta la tua fragilità, al momento di elaborare il progetto, vivendolo sulla tua pelle, ma che poi questa apertura che concedi ti permetta di ottenere frutti importanti...

Non sono un cineasta d’urto, d’assalto, non ce la faccio a servirmi della telecamera per forzare la mano e far scoprire i personaggi e le loro storie. Prediligo i rapporti uno a uno, dove riesco a confrontarmi, ad affrontare le situazioni e a crearne di nuove. Quando prendo in mano la telecamera devo anch’io sentirmi al sicuro, come i personaggi. Questo fa parte dei limiti che mi riguardano: il mio modo di lavorare riflette le mie paure. Sono io lo strumento principale per realizzare il film, ancora prima della macchina da presa, e io posso essere un coltello a doppio manico: posso fare o disfare il film, posso anche distruggerlo, e ne sono ben consapevole. Nella mia mancanza di metodo sono molto metodico, conosco perfettamente i miei limiti e i miei pregi. Vorrei fare tutti contenti, e questo è un grossissimo limite per qualunque regista, specie per un documentarista: mettersi dalla parte dell’audience, aver paura del fallimento e del rifiuto, l’idea che quello che faccio non piaccia o possa mettere i soggetti interessati in difficoltà. Ecco perché per me è necessario non vedere il materiale, mi farei del male e farei del male al film.

 

Come dicevi, all’interno del tuo non avere metodo c’è in realtà un metodo ben preciso. In cosa consiste e quali sono i punti fermi del tuo approccio?

In primis cerco di stabilire un’empatia, sono mosso dalla voglia di raccontare una data storia con amore, di creare un rapporto quasi amoroso tra me e le persone che filmo. Non so se debba valere per tutti, sarebbe interessante vedere i risultati di un rapporto che nasce dall’odio e dall’astio... Resta fondamentale, dal mio punto di vista, giocare a carte scoperte, perché l’empatia da sola non basta. Si impara, bisogna conoscersi come autori, capire quali scelte è necessario fare e avere coraggio, un coraggio che viene dall’esperienza. Io sono arrivato a trovare un modello di lavoro dopo vari tentativi, spesso falliti. Parallelamente, è chiaro, c’è un discorso prettamente tecnico, anch’esso frutto di una lunga esperienza diretta: il ciak singolo che dura per il totale della scheda digitale o della bobina (prima 8 minuti ora 30); il silenzio assoluto durante il ciak, tra un ciak e l’altro – parlo del silenzio assoluto tra la troupe; l’assenza totale – e qui arrivo ai limiti dell’intolleranza – del gergo tecnico sul set, che crea una distanza con i personaggi, una gerarchia tra me e loro, perché è un linguaggio speciale, quasi dittatoriale che nessun altro è in grado di comprendere; la priorità assoluta di movimento ai personaggi; non interrompo mai il ciak anche in caso di problemi tecnici (non funzionasse fuoco o suono, ad esempio); la macchina sempre a spalla; la copertura degli angoli in movimento, quindi un occhio al montaggio, dal momento che il mio montaggio è pulito, quasi di finzione...

 

Che altro? In quanti siete sul set?

Pochi cavi a vista, solo macchina da presa e boom, anche se per Louisiana, a volte, abbiamo utilizzato radiomicrofoni. Poi limitare al massimo il numero di collaboratori sul set, di norma un massimo di 4: io, l’operatore, fuoco e fonico. In casi estremi, quando c’è bisogno di ridurre il numero di persone sul set non esito a farmi da parte, esco io se è necessario. Si torna, dunque, al concetto della perdita di controllo: permetto e favorisco la genesi del film ma le scene vanno avanti anche senza di me. Ripeto, tutto questo l’ho imparato con gli anni e con l’esperienza. Ho una formazione tecnica da fotografo, da fotoreporter, e al cinema sono arrivato in maniera spontanea con The Passage, un film a me molto caro che è stato un vero casino... Il non sapere cosa si stesse facendo era qualcosa di esilarante ma anche drammatico, però ne è venuto fuori un film, e ciò mi ha dato fiducia. Se siamo riusciti a fare un film quando non eravamo neanche in grado di capire a quali frequenze si dovesse registrare il suono, è evidente che si poteva solo migliorare! Credo che a molti registi, a ogni livello, manchi la disponibilità a fallire clamorosamente e vivere quel disastro, arrivare ai limiti e voler quasi abbandonare la professione, riuscire a sopportare l’urto e l’impatto del fallimento totale.

Dopo aver visto il tuo ultimo film, What You Gonna Do When the World’s on Fire?, mi pare di riconoscere nel tuo percorso cinematografico un moto interno che conduce dall’intimità e dal personale, verso il collettivo e il sociale. Quasi fossi partito dai singoli individui per poi aprirti a uno spaccato più dichiaratamente politico. È così?

Credo ci sia anche un aspetto molto personale, di crescita: con il passare del tempo anche la mia “voce” è cresciuta, si è rafforzata, ho preso coraggio e ho pensato di aver conquistato l’autorevolezza necessaria ad affrontare in maniera più decisa un discorso politico che mi stava molto a cuore. Sempre con l’idea di non farne un monologo ma di dare vita a una dialettica, se non addirittura a un dibattito. C’è poi, evidentemente, il mio essere texano d’adozione, tenendo presente che il Texas è lo stato più multietnico d’America e al tempo stesso anche quello più segregazionista, quindi si partecipa di questa tensione, di questo conflitto – in particolare nella città di Houston in cui vivo: una roccaforte progressista dai confini territoriali molto estesi e circondata da fortissimi moti reazionari che oggi più che mai hanno preso voce, perché grazie alle manovre del presidente Trump i movimenti di estrema destra possono godere di libertà garantite loro dal Primo emendamento. La libertà di espressione si trasforma così facilmente nella libertà di odiare e nei cosiddetti “hate crimes”. L’uguaglianza non è un concetto flessibile, è qualcosa di ben preciso, lo dico perché negli Stati Uniti il concetto di uguaglianza è in qualche modo un concetto perverso. Per me, quindi, era necessario utilizzare questa seppur piccola visibilità mediatica guadagnata con i film precedenti per prendere una posizione ben precisa e testimoniare di quanto sta accadendo.

 

Anche in questo caso si tratta di un progetto che nasce con determinate intenzioni, legato anche alla figura di Leadbelly, e poi perde per strada le proprie origini per trovare una nuova dimensione formale e di racconto. Cosa ha fatto sì che il film prendesse un’altra piega, oltre l’urgenza politica di cui dicevi poco fa? E anche in questo caso sono stati i personaggi che hai incontrato a rivelarti la storia che intendevi raccontare?

Assolutamente sì. Sono partito dall’idea di parlare della musica come ultimo baluardo inespugnabile dell’eredità culturale dei neri d’America, bagaglio poi espropriato per mezzo delle registrazioni fatte dal governo e dallo Smithsonian Institute negli anni ‘30, e uno dei primi spiritual a essere registrati dallo Smithsonian fu proprio What You Gonna Do When the World’s on Fire?. Mi interessava andare alla ricerca delle loro radici attraverso la musica, poi le cose sono cambiate, grazie all’incontro con Judy e il suo bar, in cui si esibiva ogni mercoledì. Ho invertito la marcia: anziché raccontare il passato per parlare del presente, racconto storie del presente nelle quali si riflette la Storia più ampia. C’è sempre un momento, nella realizzazione dei miei film, in cui avviene una sorta di catarsi, perché il momento delle riprese, molto lungo, è preceduto da un’altrettanto lunga fase di frequentazione, uno stare insieme che trascende completamente il cinema e che costituisce la condizione necessaria per poter pensare di realizzare progetti cinematografici come i miei. Si tratta di un cinema che dev’essere vissuto, persino a prescindere dalla realizzazione stessa del film: un cinema che esiste a prescindere dal cinema, mi verrebbe da dire.

 

La scelta di filmare in bianco e nero è una novità, nella tua produzione. A cosa è dovuta?

A due motivi, nessuno dei quali ha a che fare con il colore della pelle. Da una parte pensavo sarebbe stato importante fornire un equilibrio a tutte le storie raccontate e ai loro diversi contesti: dal momento che non convergono in senso drammaturgico ho pensato di fare a meno di una caratteristica, il colore, che le avrebbe ulteriormente tenute lontane. La seconda ragione è legata all’idea di fornire un aspetto atemporale al racconto: non è la mia storia, quindi mi annullo, mi faccio da parte attraverso la sottrazione del colore, che a volte può essere molto invasivo. Era anche un modo per neutralizzare una concezione del colore proprio della cultura bianca europea, così come lo è il concetto di “bello” ad esso legato. Escludendo il colore abbiamo escluso anche una gerarchia del bello e del brutto, e della differenza, che non ci interessava.

 

Nel finale del film la domanda che lo sottende (“Cosa fare quando il mondo è in fiamme?”) emerge con forza e trova risposte diverse: da una parte una madre che consiglia al figlio adolescente di essere remissivo e non reagire, dall’altra un gruppo di attivisti che è pronto allo scontro. Mi pare evidente come la domanda, posta nel titolo alla seconda persona singolare, sia rivolta a tutti: è un momento critico in cui ognuno deve decidere da che parte stare.

La domanda è sicuramente rivolta a tutti. Tuttavia, penso che tale domanda non debba semplicemente indurci a una riflessione sul “da che parte stare”. Questo perché, in realtà, non stiamo parlando di “parti” di uno stesso mondo, bensì di mondi completamente diversi. In quello dei neri d’America, ad esempio, quando le fiamme bruciano si muore perché i soccorsi non arrivano. Storicamente, le urla dei neri vengono ignorate dai governi centrali e locali. Sono “l’elemento di disturbo che rallenta il progresso della democrazia Americana”. Basta pensare a ciò che disse Trump in campagna elettorale circa l’incremento della violenza in tutte le principali dowtown nere, ragion per cui sarebbe necessario un maggior intervento da parte delle forze dell’ordine: in realtà, Trump non fece altro che riproporre l’antica strategia politica dell’“ethnic cleansing” (pulizia etnica). Al contrario, nel mondo dei bianchi americani, quando il mondo è in fiamme si scappa via, il più lontano possibile dal calore delle fiamme, in attesa dei soccorsi che puntualmente arriveranno. I bianchi fanno finta di sentire le fiamme che si stanno mangiando il mondo: lo fanno sia come azione (conscia o inconscia) purificatoria della propria coscienza, sia perché pensano (consciamente o inconsciamente) che l’empatia può sopperire all’inerzia politica e militante. Questo è un problema morale e ideologico che non esiste solo in America: in Europa la crisi dell’immigrazione ha portato in superficie moti reazionari, razzisti e nazionalisti in realtà forti già da tempo. Noi bianchi progressisti, americani o europei, comprendiamo appieno la gravità delle diatribe razziali e delle politiche xenofobe che affliggono quasi ogni angolo del mondo – cosa che ci causa anche sofferenza emotiva –, tuttavia, riusciamo a dormire sonni tranquilli, nella consapevolezza di un mondo completamente spaccato a metà. Quindi, forse la risposta alla domanda “Che fare…” è duplice: Se si è bianchi, si corre ai ripari. Se si è neri, si scappa da Dio (come dice il gospel da cui è tratto il titolo del film). 

THE PASSAGE
USA, Italia, Belgio, 2011
DCP, col, 89 min
v.o. inglese sott. in italiano
scheda

LOW TIDE
USA, Italia, Belgio, 2012
DCP, col, 92 min
v.o. inglese sott. italiano
scheda

STOP THE POUNDING HEART
USA, Italia, Belgio, 2013
DCP, col, 98 min
v.o. inglese sott. italiano
scheda

LOUISIANA (THE OTHER SIDE)
Italia, Francia, 2015
DCP, col, 92 min
v.o. inglese sott. italiano
scheda

WHAT YOU GONNA DO WHEN THE WORLD’S ON FIRE?
Italia, USA, Francia, 2018
DCP, b/n, 109 min
v.o. inglese sott. italiano
scheda