Mostra fotografica di Cecilia Mangini
Emergono dal passato come delle madeleine, sotto il cielo di un’estate torrida la cui luce diafana si specchia sul Mediterraneo, inondando di sole due isole, Panarea e Lipari, così lontane e così simili alla Sardegna, di ieri e di oggi. Nel loro scatto, il fluido scorrere del tempo si è raggelato, eliminando la prospettiva della storia, e anche quella della morte. Ciascuno dei giorni passati è rimasto depositato come una memoria involontaria, a ricordarci chi siamo, chi siamo stati e chi diventeremo.
È il 1952 quando Cecilia Mangini mette mano alla sua reflex, una Zeiss SuperIkonta 6×6. Ha appena compiuto 25 anni. Va in Sicilia, a Lipari, per realizzare un servizio fotografico sui lavoratori e le lavoratrici che si dannano la vita in una cava di pomice. Molti di loro si ammaleranno di silicosi, e a poco serviranno le mascherine che proteggono la bocca. Mangini documenta con istantanee drammatiche (e talora poetiche, ma senza mai cedere al sentimentalismo) le condizioni del lavoro. Il servizio non verrà pubblicato, non allora. Ma costituisce già un segnale preciso della personalità e del particolarissimo “punto di vista” che muove lo sguardo dell’autrice. Una strada che non molti anni dopo la porterà a documentare la realtà non più con immagini fisse, ma in movimento.
Fotografa naturale, la si potrebbe definire, Cecilia Magnini fa riemergere le sue immagini da un silenzio lungo oltre mezzo secolo. Seppure affiorate dal buio, per il sentimento che suscitano, per la freschezza intatta dello sguardo, queste fotografie sembrano scattate oggi. Ma sono una testimonianza di un processo di cambiamento, che di lì a poco avrebbe marginalizzato e cancellato per sempre i protagonisti di quel mondo. È il mondo amato da Pasolini, quello della pre-modernità, la cui anima autenticamente vitale è passata indenne alla rivoluzione fascista, ma non sopravvivrà alla modernità.
Sono foto limpide, precise: dai primi piani alle scene composte, ci sono sempre un luogo, un’azione – spesso lavorativa, oppure di vita quotidiana – e un finale aperto, sospeso. La vita si srotola come un nastro, l’occhio della fotografa la riprende, il soggetto non è protagonista, ma parte del tutto. C’è la forza inaudita della cultura dell’Italia di quegli anni: c’è lo sguardo nuovo del Futurismo, c’è la magia della metafisica di De Chirico, c’è tutto il retroterra culturale che sfocerà in quegli anni nel Neorealismo.
A Panarea il tema ricorrente sono i ragazzi del luogo, tutti più o meno coinvolti nel quotidiano ménage familiare, anche dal punto di vista lavorativo. Ragazzi pastori, pescatori, che attendono alle faccende domestiche, alle incombenze del minuscolo indotto turistico. A Lipari, raggiunta in vaporetto per una gita fugace di un giorno, l’epifania si completa: le cave di pomice sono un set neorealista a cielo aperto, le fasi del lavoro di raccolta e trasformazione del prezioso materiale, attorno cui ruotava l’economia dell’isola, sono documentate puntualmente, come se dovessero diventare poi materia da rotocalco.
Accanto al rigore documentaristico c’è spazio anche per una narrazione più intima e partecipata: la donna ripresa di spalle che attraversa la bianca distesa di pomice, una delle immagini più conosciute di Cecilia Mangini, scopriamo essere il vertice iconico di una sequenza narrativa più articolata, quella che vede la donna portare il pranzo al marito e al figlio ancora bambino, entrambi operai nella cava. Uno sguardo che diventa immediatamente poetico, quando indugia sui volti e sulla gestualità del lavoro manuale e in cui lo sviluppo narrativo denuncia già una naturale propensione per quella missione documentaristica, cui in futuro sarà destinata.
È la conferma di ciò che Cecilia Mangini forse fino ad allora aveva appena intuito, o magari sperato: l’immagine e la sua funzione sociale più importante, quella documentaria, devono essere una via per raccontare l’Italia che sta faticosamente rinascendo dalle macerie del secondo conflitto mondiale.
La mostra è allestita presso le sale per le esposizioni temporanee del Museo del Costume fino al 22 ottobre 2017.